martedì 13 aprile 2004

Tony Blair: 'perche' combattiamo questa guerra'


Tony Blair sull'Observer:
In Iraq siamo impegnati in uno scontro epocale. Dal suo esito dipende molto più del destino del popolo iracheno. Se dovessimo fallire - cosa che non accadrà - a essere sconfitto sarebbe molto più dell'"autorità americana". Si affievolirebbe in Iraq la speranza della libertà e della tolleranza religiosa. I dittatori esulterebbero, i fanatici e i terroristi sarebbero euforici. Qualsiasi traccia nascente di un'opinione araba moderata - che sa bene che il futuro non dovrà appartenere al fondamentalismo religioso - farebbe dietrofront.

Se invece avremo successo - se l'Iraq diverrà uno Stato sovrano, governato democraticamente dal popolo iracheno; se saranno irachene le ricchezze che in nuce ne fanno un paese ricco; se il petrolio sarà il loro petrolio; se lo stato di polizia sarà sostituito dalla sovranità della legge e dal rispetto dei diritti umani - immaginate che colpo per la velenosa propaganda degli estremisti. Immaginate la spinta verso il cambiamento che si innescherebbe in Medio Oriente.

In ogni paese, compreso il nostro, i fanatici predicano il loro verbo di odio, basando il loro dogma su un'aberrazione consapevole dell'autentica religione dell'Islam. Il terrorismo approfitta dei dissidi etnici o religiosi. Dal Kashmir alla Cecenia, alla Palestina e Israele, i terroristi fomentano l'odio, intralciano ogni riconciliazione. In Europa hanno perpetrato il massacro di Madrid. Hanno minacciato la Francia. In Inghilterra i loro piani per ora sono stati sventati.

Come è ovvio, i terroristi sfruttano l'Iraq: per loro è di vitale importanza. Poiché qualsiasi attacco influisce sul tentativo americano di riportare l'ordine, loro lo dipingono come una brutalità commessa dall'America. I terroristi sanno che si tratta di una guerra epocale. Sanno che la loro vittoria significherebbe qualcosa di più che sconfiggere l'America o la Gran Bretagna. Sanno che la loro vittoria annienterebbe la civiltà, la democrazia, ovunque. Loro lo sanno. E noi? La verità è che di fronte a questo scontro, dal quale dipende il nostro stesso futuro, una parte considerevole dell'opinione pubblica occidentale se ne tiene distante, se addirittura non arriva quasi a sperare che si fallisca, intrisa di gioia maligna per le difficoltà che andiamo incontrando.

Ma allora, qual è esattamente la natura della battaglia che si combatte in Iraq? Questa non è una "guerra civile", sebbene lo scopo del terrorismo sia senza dubbio quello di farne scoppiare una. L'attuale rigurgito di violenza non si è esteso a tutto l'Iraq: molta parte di esso non ne è toccato e gran parte degli iracheni la condanna. I rivoltosi sono ex simpatizzanti di Saddam Hussein, furenti che il loro status di "boss" sia stato revocato; sono gruppi di terroristi legati ad Al Qaeda, e, più recentemente, seguaci del religioso sciita Moqtada al-Sadr. Quest'ultimo non è un rappresentante della maggioranza dell'opinione sciita.

È un fondamentalista, un predicatore di violenza. È ricercato per l'assassinio di un moderato religioso di più alto grado di lui, l'Ayatollah al-Khoei, avvenuto l'anno scorso. Il giudice iracheno che ha spiccato il mandato di cattura nei suoi confronti è l'esempio di quanto orribilmente di parte sia diventata una fetta del giornalismo occidentale. Liquidato come "lacché dell'America", il giudice è sopravvissuto a tentativi di omicidio e a forti intimidazioni, ma ha affrontato tutto per portare avanti il processo legale e ha insistito per emettere l'ordine di cattura, sebbene così facendo abbia corso il rischio di minacce alla sua vita.

Ed eccoci al punto. Da un lato, al di là dei terroristi, vi sono un estremista (che si è creato una milizia personale), assieme a ciò che resta di una dittatura brutale. Dall'altro lato vi sono persone di enorme coraggio e umanità, che hanno l'ardire di credere che i diritti umani di base e la libertà non siano alieni del tutto alla cultura araba e mediorientale, ma ne siano la salvezza. (...) In Occidente la gente si chiede: perché i portavoce del nuovo Iraq non fanno sentire la loro voce? Perché i religiosi sciiti non denunciano Sadr? So perché chiedono queste cose. Ma la risposta è semplice: sono preoccupati. Si ricordano del 1991, quando l'Occidente li abbandonò al loro destino. Conoscono la loro terra, non usa al dibattito democratico, pullulante di voci, e ne conoscono la volubilità. Leggono i giornali occidentali, ascoltano i nostri mezzi di comunicazione. E si chiedono, tanto quanto fanno i terroristi: avremo lo stomaco di andare fino in fondo?

Io credo di sì. Il resto del mondo deve sperare nella nostra riuscita. Nulla di tutto ciò equivale a dire che non dobbiamo imparare e ascoltare. C'è un'agenda che potrebbe unire la maggioranza del mondo. Si tratta di perseguire il terrorismo e gli stati canaglia da una parte e di porre rimedio alle cause da cui essi germogliano dall'altra: la questione palestinese, la povertà e lo sviluppo, la democrazia in Medio Oriente, il dialogo tra le religioni.

Sono giunto a credere fermamente che l'ultima e la sola protezione risieda nei nostri valori. Quanto più i popoli sono liberi, tanto più sono tolleranti nei confronti degli altri. Quanto più sono floridi, tanto meno saranno disposti a scialacquare le loro ricchezze per vane lotte tribali o guerre. La minaccia più grave che incombe su di noi, a parte quella più immediata del terrorismo, è la nostra compiacenza. Quando taluni ascrivono, come di fatto fanno, l'acuirsi della violenza dell'estremismo islamico alla situazione in Iraq, dimenticano davvero chi ha ucciso chi l'11 settembre 2001? Quando ci esortano a riportare a casa le nostre truppe, davvero ritengono che ciò possa placare la sete di questi estremisti, senza contare ciò che questo comporterebbe per gli iracheni? O forse credono che, se noi disdegnassimo i nostri alleati americani, e dicessimo loro di andare a combattere da soli, qualcuno potrebbe scampare il pericolo? Se noi ci ritirassimo dall'Iraq ci direbbero di ritirarci dall'Afghanistan, e dopo di ciò, di ritirarci dal Medio Oriente nel suo complesso e poi, chissà? Una cosa però è certa: loro confidano nella nostra debolezza, proprio nella stessa misura in cui confidano nel loro fanatismo religioso. Quanto più deboli saremo, tanto più loro ci daranno addosso. (...)
Traduzione di Anna Bissanti via Generale Lee, che ringrazio.



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