lunedì 30 agosto 2004

Barenghi: non tutte le reazioni sono uguali


...anzi non tutte sono reazioni.



Così scrive Riccardo Barenghi sul Manifesto in risposta alla e-mail di un lettore che, tanto per cambiare, nel suo messaggio pesca a piene mani dal solito campionario buono per tutte le stagioni: gli amerikani sono i kattivi, i resistenti iracheni sono i buoni, il governo italiano è incapace, tutte le colpe del mondo pesano sull'Occidente (e quindi - è l'esplicito sottinteso - gli "altri" hanno ragione a fare quello che fanno) etc. etc.



Barenghi all'inizio della sua risposta dà ragione a 360 gradi al nostro pacifinto, ma poi nel prosieguo non si perita di dargli un grosso dispiacere, leggere per credere:
Concordo su tutto, analisi, rabbia, indignazione, dolore, posizione politica. Non concordo solo su una cosa, una cosa che non c'è. E che non essendoci non suona solo come un'omissione ma anche come se si trattasse di un'inevitabile conseguenza di tutto il resto. Parlo ovviamente di quel che accade in Iraq dalla parte degli iracheni e o di chi pretende di interpretarne i desideri. Il terrorismo, insomma, in tutte le sue manifestazioni, autobombe, kamikaze, sequestri, teste tagliate, esecuzioni e via inorridendo. Ecco, la mia opinione è che derubricare tutto questo a una semplice, seppur barbarica, reazione alla guerra sia sbagliato e soprattutto comporta il rischio della semplificazione. Semplifico a mia volta per capirci: tutto quel che accade nel mondo povero è colpa del mondo ricco, che depreda, affama, domina, bombarda. Dunque, se il mondo povero reagisce male la colpa è sempre nostra. Conclusione: se noi ci comportassimo in altro modo, scomparirebbero anche le reazioni più mostruose.



Se ce la raccontiamo così, ci rifugiamo in un facile manicheismo che ci impedisce di capire che non tutti i buoni sono buoni e viceversa, ma soprattutto che i cattivi schierati con i buoni rischiano di contaminare la giusta causa, facendole cambiare natura. E che forse in quel mondo esiste una cultura (chiamiamola così) della vita e soprattutto della morte che prima o poi bisognerà affrontare se non vogliamo sprofondare nel relativismo culturale.



In altre parole, se la liberazione dell'Iraq deve passare attraverso decine centinaia di iracheni fatti saltare in aria da altri iracheni o supposti tali, o decine di stranieri sequestrati e decapitati, io non so quanto questa liberazione sia sul serio una liberazione. Non solo per quel che accadrà dopo in un paese liberato anche grazie al terrorismo il quale farà sentire il suo peso nella gestione politico-religiosa dell'Iraq, ma proprio per il fatto in se stesso.



Parlo ovviamente a titolo strettamente personale, non penso infatti che qui tutti siano d'accordo con quel che sto per dire (poco ma sicuro, NdR), ma tra un Iraq liberato a colpi di teste tagliate e un Iraq occupato dagli americani, io scelgo la seconda ipotesi. Obiezione: ma se gli americani non se ne vanno, quelli continueranno a tagliare teste. Controbiezione: e se invece continuassero a tagliarle anche senza gli americani?
Non è molto, lo ammetto, ma è già meglio di niente - forse qualcuno nell'estrema sinistra comincia ad avere dei dubbi sulla "resistenza" irachena, e sul rapporto mezzi/fini.



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