sabato 8 novembre 2003

Sulla guerra in Irak mi ero sbagliato


No, non lo dico io: lo dice Fawad Turki, columnist di Arab News, il quotidiano saudita in lingua inglese che ha pubblicato la sua autocritica.
È forse troppo presto per adottare un atteggiamento revisionista nei confronti della guerra americana in Iraq, e perché questo giornale ammetta il proprio errore nell'averla osteggiata fin dall'inizio? Il punto è capire se il popolo iracheno abbia tratto dei benefici dal rovesciamento del regime baathista, e se l'occupazione americana potrà portare altri benefici ancora al paese. Sono convinto - e condannatemi pure dai vostri patriottici palchi - che gli avvenimenti nel paese tra il Tigri e l'Eufrate, di cui siamo stati testimoni negli ultimi mesi, possano dimostrarsi come gli eventi più fausti della sua storia moderna.

Non c'è alcun bisogno di scusarsi nel dichiarare che, bene supremo di questa guerra, è quello d'aver tolto di mezzo Saddam. Punto.



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Non si diventa revisionisti dal nulla. Esamino il materiale, proveniente dai vari media, sulle fosse comuni ritrovate in tutto l'Iraq, in particolare su quelle scoperte in numerose località del sud, dove nel 1991 Saddam schiacciò una rivolta con ferocia genocida, e sono costretto a distogliere lo sguardo, disgustato e sconcertato. Poi c'è il rapporto dell'inviato speciale delle Nazioni Unite, presentato nel 2001, sulle esecuzioni di 4000 detenuti della prigione di Abu Ghraib del 1984, e di altre 3000 nella prigione di Mahjar tra il 1993 e il 1998. E ci si chiede come possa un regime comportarsi in modo così abominevole, senza alcuna umana decenza.



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Uno degli effetti collaterali dell'invasione americana in Iraq è stata la cacciata di Saddam e la cancellazione, chiaramente per sempre, della galera totalitaria in cui aveva trasformato il suo paese. Ciò, secondo me, è già sufficiente a garantire il mio sostegno all'invasione e ai progetti futuri di Washington per la ricostruzione del paese. Washington potrà anche non riuscire a trasformare l'Iraq in un "faro della democrazia", ma riuscirà, alla fine dei conti, a trasformarlo in una società fondata su leggi e istituzioni, in cui i cittadini, e i loro figli adolescenti, siano protetti da arresti, incarcerazioni, torture ed esecuzioni arbitrarie.



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...gli Stati Uniti potrebbero, e dico potrebbero, finire per fare in Iraq ciò che hanno fatto nei paesi europei distrutti dalla guerra applicando il Piano Marshall. E se non lo fanno, ebbene, cosa ci perderebbero gli iracheni a parte il rituale terrore di una vita oppressa da un dittatore che ha spezzato la loro società in taglienti schegge di paura, isteria e sacrificio - un uomo che pretendeva che bambini di 7-8 anni imparassero canzoni i cui testi lo lodavano con versi quali "Quando gli passa vicino, le rose lo festeggiano"?



No, io non credo che dichiarando la guerra l'America avesse oscuri disegni sul petrolio iracheno, o perseguisse un'altrettanto oscura cospirazione per "aiutare Israele".



Io credo che gli Stati Uniti, per amore o per forza, finiranno per aiutare gli iracheni a riconquistare la propria condizione umana, la loro compostezza sociale e la volontà nazionale di ricostruire la loro devastata nazione.



E no, non è troppo presto per adottare un atteggiamento revisionista sulla guerra americana in Iraq, né troppo tardi perché un giornalista dica che si era sbagliato fin dall'inizio.
Mentre sulla stampa araba iniziano a venire pubblicate riflessioni come questa, nella democratica e pacifista Europa siti web come quello di Campo Antimperialista portano avanti una campagna di raccolta fondi (10 Euro per l'Irak) per finanziare "la resistenza del valoroso popolo iracheno" contro gli "invasori USA" - in pratica, tradotto dai soliti sbrodolamenti gergali vetero-comunisti, per finanziare i terroristi che in queste settimane non solo hanno sistematicamente assassinato uomini e donne appartenenti alle forze militari americane, ma anche poliziotti e civili iracheni, personale dell'ONU e - per la prima volta in 150 anni di storia dell'organizzazione - della Croce Rossa Internazionale.



Link: testo integrale dell'articolo di Fawad Turki su Il Riformista.



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