giovedì 13 novembre 2003

Due editoriali de ''Il Riformista'' sull'Irak


Il Riformista mi piace, è la prova provata del fatto che anche in Italia un'altra sinistra è possibile, una sinistra con cui sarebbe un piacere dibattere, discutere, dialogare, anche litigare quando occorre.



Per oggi con quelli del Riformista non litigherò di certo: per il secondo giorno consecutivo scrivono delle cose sull'Irak che trovo condivisibili al 110%.



Dall'editoriale del 13 novembre, online da ieri sera, intitolato "Perché dobbiamo restare - che cosa deve cambiare":
L’emozione ci spinge innanzitutto a chiederci perché, e se ne valeva la pena. Alle emozioni bisogna dare risposte semplici, semplici come quella che ha dato ieri il presidente Ciampi: "Sono militari caduti mentre facevano il loro dovere, per aiutare il popolo iracheno a ritrovare la pace, l’ordine, la sicurezza. I nostri carabinieri, le nostre forze armate, sono in Iraq su mandato e volontà del Parlamento". Ecco la ragione per cui sono morti.

Abbiamo apprezzato i numerosi eletti del popolo che, anche militando nell’opposizione come Fassino, D’Alema e Rutelli, hanno ieri ricordato il principio di ogni democrazia: "right or wrong, my country". E che per questo si sono trattenuti dalla speculazione politica, per far sentire agli italiani in guerra l’unità della nazione dietro di loro.



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Prima o poi verrà in superficie il grumo di dubbi che alberga nella coscienza del paese: dovevamo andare? vale la pena morire per Nassiriya?

La risposta, purtroppo, è iscritta nello stesso massacro di ieri: il fronte principale della guerra al terrorismo è oggi in Iraq. L’Italia ha deciso di partecipare a questa guerra, e non solo per solidarietà con gli alleati, ma perché è una guerra dichiarata anche a noi.



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Il nemico è spregevole, spara anche sulla Croce Rossa, uccide fratelli arabi, inermi cittadini iracheni, (anche ieri, insieme con i militari italiani). Dunque la guerra è sanguinosa. Vincerla, a questo punto, è un dovere, anche per non rendere vano il sacrificio orribile di Nassiriya. L’unica cosa di cui un paese serio deve oggi discutere è perciò come vincerla. Che cosa fare, in rapporto con gli alleati, per accrescere la sicurezza delle nostre truppe. Per migliorare l’intelligence. Per fare il vuoto intorno ai terroristi, prosciugando quella vasta area di sbandati che sono stati travolti dalla caduta di un lunghissimo regime e che oggi ha il problema, quotidiano, di cercare un desco e un datore di lavoro.



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Si continuerà a discutere a lungo se la guerra per cacciare Saddam sia stata giusta o sbagliata. Quello che è oggi chiaro è che in Iraq c’era un nido di vipere. Si continuerà a discutere a lungo se era meglio lasciare che un dittatore come Saddam tenesse sotto il tallone, insieme alla sua gente, anche quel nido di vipere. Ma ora il coperchio è saltato, le vipere sono libere, non resta che schiacciarle a una a una, con la forza e l’intelligenza. Ritirarsi, come dicono gli irresponsabili, vorrebbe dire trasformare l’Iraq in un nuovo Afghanistan. Il cui abbandono da parte dell’Occidente incubò l’attacco alle Due Torri e l’avvio di quella guerra che ieri si è presa il suo tributo di sangue italiano. La risposta dell’Italia non può dunque essere che quella annunciata da Ciampi: "Continueremo a svolgere, insieme con i nostri alleati e con le Nazioni Unite, il nostro ruolo nella lotta al terrorismo internazionale".
Ed ecco alcuni stralci dell'editoriale del 14 novembre, intitolato "Tre ipocrisie sull’autogoverno" già online da oggi pomeriggio:
Ipocriti sono gli americani quando dicono "più potere agli iracheni". Ma quale potere e a quali iracheni? Si chiede adesso a un ectoplasma come il consiglio governativo di fissare entro il 15 dicembre (cioè meno di un mese) un calendario preciso per elezioni libere e democratiche basate su una costituzione libera e democratica anch’essa. Fino a poco fa si diceva che ci volevano due anni.



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La seconda ipocrisia è che il passaggio di poteri equivalga a un tutti a casa. È evidente che non sarà così. Non lo è in Afghanistan dove la situazione è molto meno compromessa, figuriamoci in Iraq. Chi potrà dire che un po’ di poliziotti, magari presi tra gli sbandati dell’esercito di Saddam, potranno garantire legge e ordine in un paese decomposto e sempre più tribalizzato? È chiaro che dovranno restare forze militari straniere, consistenti, ben organizzate e per lungo tempo. La vera novità non è militare, ma politica. Non saranno più forze di occupazione, ma di vero peace-keeping. Non è poco. Ma né Bush né Berlusconi potranno riavere presto i loro ragazzi a casa.



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Ipocriti sono anche quei paesi che stanno sulla riva del fiume aspettando che passi il cadavere dell’amministrazione Bush. E pensiamo alla Francia in primo luogo. Lo abbiamo detto più volte: a galleggiare sulle rive dell’Eufrate non saranno le vestigia dei neoconservatori, ma l’onore dell’Occidente, la sua rispettabilità, la forza di attrazione culturale oltre che politica della democrazia. L’Iraq non tornerebbe nemmeno nelle mani di un Saddam più minaccioso, ma sarebbe spartito tra Al Qaeda e i mullah pronti a instaurare un regime clericale e fondamentalista. Dunque, i paesi che hanno capacità militari (e in Occidente sono solo tre: Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia) dovrebbero cominciare a cooperare, coinvolgendo in un importante ruolo di supporto altri come l’Italia, la Spagna, l’India o la stessa Turchia. La vera alternativa non è l’irachizzazione, ma una internazionalizzazione del processo di pace.
Se fosse questa la sinistra, in Italia, potrei tranquillamente votarla. Poi però leggo le dichiarazioni fatte ieri da personaggi come Diliberto, Pegoraro Scanio, Bertinotti, Cossutta, e mi dico che non è (ancora) il caso.



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