mercoledì 19 novembre 2003

La Chiesa lo capisce, lo capira' la sinistra?


Questo il titolo dell'editoriale di oggi de Il Riformista.
La Chiesa comprende che oggi il paese non può replicare stancamente il dibattito di qualche mese fa, quando si divise sulla guerra di Bush all’Iraq, e il mondo cattolico si schierò nella sua maggioranza contro quell’intervento. La Chiesa comprende che è cambiato lo scenario ed è cambiata la guerra. Questa qui coinvolge direttamente anche noi, e ci è mossa dai terroristi.



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È un discorso che interpella direttamente la sinistra. Mario Pirani, sulla Repubblica di ieri, individua correttamente nella storia più recente della sinistra riformista (il Kosovo, l’Afghanistan) le tracce di un senso di responsabilità nazionale che non è stato spazzato via dal dissidio sulla guerra in Iraq. Ma dalla sua critica all’intervento militare - serrata e della prima ora - fa discendere un giudizio negativo sull’appello da noi lanciato all’unità nazionale nella guerra ai terroristi. "Dobbiamo piangere assieme i nostri caduti - dice - ma non possiamo avvolgerci nel tricolore per coprirci gli occhi e chiudere la bocca di fronte a una politica sbagliata e catastrofica".

Noi non chiediamo a nessuno di coprirsi gli occhi col tricolore, c’è già tanta gente in Italia che si è coperta gli occhi col vessillo della pace.



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Ci sarà però una ragione per cui né Pirani né la sinistra riformista che lui elogia andranno in quelle piazze. E la ragione è che entrambi sentono il dovere di dare una risposta alla domanda di oggi, non a quella di ieri: combattiamo anche noi il terrore globale (non solo Nassiriya, ma anche Istanbul)? Restiamo in Iraq perché lo consideriamo il teatro principale di questa guerra? Siamo disposti a riconoscere che la nostra missione di pace si svolge ora nel cuore di un conflitto, e dunque comporta i rischi e prescrive le regole di una missione in teatro di guerra? Una volta che l’Onu, o la Nato, o un’altra organizzazione multilaterale, avessero preso il controllo delle operazioni in Iraq, la guerra dei terroristi infatti non finirebbe per incanto, come gli attentati all’Onu e alla Croce Rossa hanno già ampiamente dimostrato. E per tenere dei soldati in zona di guerra, con i rischi che la guerra comporta, non c’è altro modo che l’unità nazionale del fronte interno: la condivisione della gestione della crisi e delle responsabilità che ne derivano.
In una democrazia liberale governo e opposizione dovrebbero badare a svolgere i propri, rispettivi ruoli e non abbandonarsi a pericolose ammucchiate parlamentari - le passate esperienze dei governi di "solidarietà nazionale" dovrebbero averci insegnato qualcosa, in proposito - quindi personalmente non sono del tutto sicuro che condividere non solo l'impegno bipartisan contro il terrorismo islamo-fascista ma anche le responsabilità relative alla gestione concreta delle iniziative che da questo impegno derivano sia una buona cosa - negli Stati Uniti, per dire, i democratici hanno fornito e continuano a fornire senza tentennamenti, dai banchi dell'opposizione, il loro sostegno alla lotta ad al Qaeda, ma la gestione operativa è in mano a Bush, e nessuno si sognerebbe di proporre una gestione "condominiale" del conflitto.



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