lunedì 7 marzo 2005

Galli Della Loggia: qualche domanda sul complotto

Anche Ernesto Galli Della Loggia, sul Corriere della Sera, ha delle domande da porre sul presunto complotto amerikano; alcune riecheggiano le mie di sabato:
Nell’Italia sotto choc per la morte di Nicola Calipari l’emozione sta facendo dire e scrivere a molti parole che forse appena fra qualche giorno potrebbero risultare esagerate se non imbarazzanti. Naturalmente siamo i primi a capire, e in certa misura addirittura a condividere, ciò che sta dietro quell’emozione. Per esempio l’angoscia di Giuliana Sgrena che si è vista sequestrare dagli stessi che credeva di difendere, che è stata per un mese prigioniera dell’ignoto e della paura, e che infine è stata a un passo dalla morte, salvata solo dal sacrificio di uno dei suoi liberatori. Angoscia, lo sappiamo bene, non solo sua, ma di certo anche di tanti compagni a lei vicini. Ma se la comprensibile emozione mette capo ad affermazioni senza mezzi termini e crudamente polemiche come quelle che leggiamo in queste ore sul Manifesto , e che in modo meno reciso echeggiano anche altrove, sia almeno consentito porre qualche (crediamo) non irragionevole domanda.

A cominciare da quella decisiva. E cioè: davvero, come titola il «Quotidiano comunista», quello di Nicola Calipari è stato un «omicidio preventivo», e dunque premeditato? Davvero, come scrive Rossana Rossanda, gli americani hanno sparato «per uccidere» e dunque siamo di fronte a «un assassinio»? Davvero è un quadro condivisibile quello dipinto dalla stessa Rossanda di una soldataglia yankee arrogante, imberbe e/o ebbra di whisky, seguace della «massima nazionale: prima spari e poi vai a vedere»? e che obbedisce senza fiatare all’ordine: «Quando passano quegli italiani, liquidateli»? E davvero dobbiamo fidarci dell’intuito di Giuliana Sgrena quando ci dice che molto probabilmente avevano ragione i suoi rapitori allorché le hanno detto «gli americani non vogliono che tu torni» e poi, aggiunge di suo, che sempre loro, sempre gli americani «non vogliono che il nostro lavoro testimoni che cosa è diventato quel Paese con la guerra e nonostante quelle che chiamano elezioni». (Quasi che la stampa Usa, invece, scriva quel che vuole il Pentagono o, se tanto mi dà tanto, che anche i giornalisti americani siano allora tutti in pericolo di vita; e quanto alle elezioni irachene che non andrebbero chiamate elezioni, come crede la Sgrena che debbano chiamarsi?).

Ancora: quali mai potevano essere le «informazioni» in possesso della Sgrena tali, secondo il suo compagno Pier Scolari, da giustificarne l’assassinio da parte degli americani pur di non vederle divulgate? E infine: davvero dobbiamo credere che la vettura degli italiani sia stata colpita da «400 pallottole, da una pioggia di fuoco» (Scolari), dobbiamo credere a Giuliana Sgrena quando dice di aver raccolto con le sue mani sul sedile «grappoli di pallottole», ma che in questa intenzionale gragnuola di colpi di un blindato contro un’auto neppure corazzata solo un passeggero alla fine sia rimasto ucciso? Almeno a noi queste sembrano tutte domande ragionevoli.

Così come ci sembra ragionevole chiederci in conclusione: ma se a Washington era stato deciso che la giornalista italiana doveva morire, come mai, invece, per sua e nostra fortuna è sopravvissuta? Cosa ha fatto fallire il complotto? E perché mai sono stati addirittura lasciati in vita i due italiani, sicché poi testimoniassero dell’agguato? Intendiamoci: è possibile che per ognuna di queste domande ci siano risposte adeguate. Ma, se è così, allora speriamo che oggi, a mente più fredda, politici e commentatori di ogni partito si dedicheranno per l’appunto a dare queste risposte. Perché se vogliamo iniziare con gli Usa un braccio di ferro, possiamo benissimo farlo: ma sapendo che non saranno certo le emozioni e le parole forti a farcelo vincere.

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