mercoledì 5 aprile 2006

Dichiarazione di voto

Negli ultimi anni ho sperimentato una cosa buffa.

Mi sono ritrovato a vivere in un Paese dove una coalizione di centro-destra statalista e illiberale si è trovata contrapposta a una coalizione sostanzialmente a egemonia catto-comunista, e quindi per definizione a sua volta statalista e illiberale.

Questa campagna elettorale sta confermando questo dato di fatto: sia a destra che a sinistra i candidati anche solo vagamente "liberali" o "liberal-socialisti" sono stati visti come il fumo negli occhi, accettati solo per la necessità cogente di non buttare via neanche un voto degli indecisi e dei delusi, e comunque rigorosamente recintati in anguste riserve indiane, al fine di evitare che potessero fare danni.

Questo mi crea non pochi problemi, riguardo al chi votare:

io vorrei veder abolita la legge 40 sulla procreazione assistita;

sono antiproibizionista in tema di "droghe leggere";

se due persone dello stesso sesso si vogliono bene e decidono di convivere non ci trovo niente di strano; sono tendenzialmente contrario ai PACS solo perché trovo che sarebbe più logico estendere alle coppie omosessuali l'istituto del matrimonio tout-court (matrimonio "civile", quello di Stato, ovvio: il matrimonio cattolico è un'altra cosa, e riguarda solo i cattolici praticanti - ma proprio per questo mi piacerebbe tanto che i cattolici praticanti si astenessero dal costringere gli altri a seguire il loro modello);

sono pro-eutanasia (ma non sul modello olandese: autorizzare l'uccisione di bambini che altrimenti potrebbero sopravvivere anche senza cure costanti ma che godrebbero di una "bassa qualità della vita" è aberrante - per una volta nella vita mi tocca dare ragione a Giovanardi quando, estremizzando come suo solito, parla di pratiche eugenetiche e di "nazismo": in base a questa logica, cosa impedirebbe allo Stato di sopprimere tutti i bambini down, ad esempio?);

sono, da liberale prima ancora che da ateo, per una separazione netta fra Stato e Chiesa;

di conseguenza, sono contrario all'ora di religione cattolica nella scuola - e ovviamente sono altrettanto contrario a qualunque ipotesi di insegnamento del Corano o di altri libri sacri, non importa di quale religione;

per gli stessi motivi, sono contrario alla costruzione di moschee (o di chiese cattoliche, o di templi dedicati al culto di Elvis Presley, se è per questo) su suolo pubblico e con denari pubblici;

sono quindi contrario all'otto per mille, e ancora più contrario all'esenzione dall'ICI concessa agli immobili (tutti, anche quelli "commerciali": anche, ad esempio, le scuole private) di proprietà o facenti riferimento alla Chiesa cattolica;

sono contrario all'ingerenza dello Stato nell'economia e alla crescita (non importa se "controllata" o meno) della spesa pubblica;

sono contrario alla logica statalista piglia-tutto per cui qualunque aspetto delle attività umane deve (dovrebbe) essere regolamentato per legge;

non credo nella logica della difesa del (singolo) "posto di lavoro": credo invece nella necessità di difendere e potenziare "il mercato" del lavoro - sono quindi favorevole alla flessibilità, anche oltre la legge Biagi;

sono SI-global, senza se e senza ma;

per lo stesso motivo, sono contro i dazi doganali, anche alla Cina: i dazi doganali (centinaia) e le normative ad hoc (centinaia, anche qui) dell'Unione Europea impediscono a molti Paesi del Terzo e Quarto mondo di esportare in Europa i propri prodotti, arrecando un danno diretto alle loro economie (alla faccia dell'Europa "solidale" e della "libera concorrenza in libero mercato");

fra stare dalla parte delle democrazie occidentali, per quanto imperfette (come tutte le democrazie sempre sono state e sempre saranno, per loro stessa natura) e stare dalla parte delle dittature comuniste o islamiche, io sceglierò sempre di stare dalla parte delle prime, anche se questo dovesse comportare l'entrata in guerra del mio Paese;

credo che i pacifisti (quelli in buona fede, perlomeno) stiano commettendo lo stesso errore commesso dalle democrazie a Monaco nel 1938: non si può trattare sempre con tutti, si può dialogare solo con chi è disposto a farlo, non con chi cerca al massimo di prendere tempo per poi poterti colpire meglio (ogni riferimento all'Iran è puramente volontario) - se a Monaco ci fossero stati meno pacifisti, probabilmente l'Europa si sarebbe risparmiata e avrebbe risparmiato al mondo una seconda Guerra Mondiale e un orrore senza precedenti come l'Olocausto;

e via dicendo...

Insomma, per certe cose dovrei decisamente votare a sinistra, per altre mi pare ovvio che non potrei fare altro che votare a destra - peccato che, oggi come oggi, la cosa non sia possibile: non c'è scampo, o di qua o di là. Io, come chi mi legge da tempo probabilmente ha già intuito, ho scelto il "di qua", cioè la coalizione di centro-destra, come male minore. In particolare, darò il mio voto ai radicali di Benedetto Della Vedova, i Riformatori Liberali.

Certo è triste essere costretti a scegliere il male minore, lo so, ma attualmente questo passa il convento.

Per il futuro conto molto sulla nascita di un nuovo soggetto politico "veramente" liberale (niente a che vedere, quindi, col - presunto - "partito liberale di massa" che - a parole - era nelle intenzioni di Berlusconi qualche anno fa), ma le cose stanno iniziando a muoversi solo in queste settimane, anzi in questi giorni, quindi per ora la cosa è relegata nel libro dei sogni.

In attesa che i sogni diventino realtà (?) riporto qui un "manifesto per il 9 aprile" pubblicato dal giornalista del Foglio (ma di simpatie liberal-radicali: non appartiene al gruppo dei giornalisti theo-con alla Giuliano Ferrara, per intenderci) Christian Rocca (a.k.a. Camillo), manifesto che condivido parola per parola e che spiega meglio di come potrei fare io perché, nonostante tutto, voterò per questa sgangherata CdL:

"Ci sarebbe da scrivere un manifesto della società libera, contro la società del divieto. L’Italia dell’iniziativa privata versus l’Italia delle regole. L’una e l’altra si confrontano il 9 e 10 aprile prossimi alle urne, ma è dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi che queste due Italie sono emerse con qualche chiarezza. Non è una questione di destra o di sinistra, di Polo o di Unione, nemmeno di mettere in discussione quei fondamentali paletti etici sulla vita e sulla morte che appassionano questo giornale. Il problema è lo stato, anzi la funzione del governo nella vita pubblica. Una società libera è libera quando è libera dagli intralci posti da politici e burocrati che si arrogano il diritto di pianificare, programmare, scegliere al posto di chi è legittimato a decidere, cioè i cittadini, le famiglie e le imprese. Il problema è l’idea malsana che il governo del paese debba occuparsi di tutti gli aspetti della vita quotidiana, in particolar modo del bene dei suoi cittadini.
Una parte del mondo politico e intellettuale continua a pensare che la complessità della nostra società abbia bisogno di un maggior ruolo dello stato per poter essere governata al meglio, quando è vero il contrario. Più poderoso è l’intervento dello stato, più pericoli corre la libertà dei cittadini. Il dibattito sul conflitto di interessi, sulle tasse e sulla flessibilità del lavoro, al di là dei tecnicismi, verte esattamente su questo punto.
A grandi linee, c’è chi preferisce che sia l’opinione pubblica a sanzionare le violazioni dell’interesse pubblico, mentre gli altri non si fidano del libero arbitrio del popolo sovrano e si battono per regolare a priori e vietare per legge un eventuale conflitto di interessi, a patto che sia quel particolare conflitto di interessi a cui sono particolarmente interessati.
Sulle tasse c’è un’Italia che crede sia ingiusto lavorare metà anno per sé e gli altri sei mesi per lo stato, contrapposta a un’Italia che vuol tassare ancora di più i ricchi perché convinta che la povertà si sconfigga combattendo la ricchezza, non favorendola. E, non contenta di ciò, questa Italia inquadra nel mirino quel ceto medio costretto a lavorare in nero non perché mascalzone, ma a causa dell’eccessiva tassazione. C’è, infine, chi pensa che la libertà di poter licenziare in realtà significhi libertà di assumere, e non penserebbe mai di risolvere il problema del cosiddetto “precariato” proponendo di tassare i precari salvaguardando i già garantiti, come da programma dell’Unione. Il direttore uscente dell’Economist, Bill Emmott, un giornalista molto amato dalla sinistra italiana, nel suo commiato ha scritto di una “apparente incapacità dei francesi ad adattarsi a un mondo che cambia”, a proposito del tentativo di “iniettare una piccola dose di liberalismo nel rigido mercato del lavoro” che, peraltro, il governo Berlusconi ha già ampiamente iniettato, ma che è pronta a essere depotenziata in caso di vittoria dello schieramento delle regole e della rigidità.
C’è chi crede che un paese si governi liberando i cittadini dal controllo dello stato e dall’altra c’è chi, al contrario, pensa che il modo migliore sia regolamentare ogni aspetto della vita civile e sociale. Gli uni credono che bisogna fare da sé, gli altri aspirano a dare il buon esempio per decreto. I primi immaginano un governo che intralci il meno possibile la ricerca del proprio benessere personale, gli altri pensano che lo stato sia uno strumento capace di poter dispensare la felicità. “Contratto con gli italiani”, si chiamava il programma-simbolo dei berlusconiani. “Per il bene dell’Italia”, si intitolano le 281 pagine dell’Ulivo. Sono due visioni della realtà opposte e incompatibili, sebbene questa netta divisione culturale sia meno evidente nell’offerta elettorale. Nel centrodestra, infatti, restano ampie fette statocentriche, più che altro dentro An e l’Udc, mentre nell’Unione ci sono i libertari e liberisti della Rosa nel Pugno che un liberale integrale come Antonio Martino, a 8 giorni dal voto, vedrebbe volentieri con i berlusconiani.
Nel linguaggio politico corrente lo schieramento delle libertà viene definito conservatore, quello delle regole invece progressista. E’ vero il contrario. Archiviato nella pattumiera della storia il socialismo reale, l’inganno semantico nasce in America, ovvero nel paese che non ha mai conosciuto né fascismo né comunismo. Gli Stati Uniti sono una società liberale, nella quale i conservatori vogliono conservare le proprie libertà e i progressisti, che peraltro si chiamano liberali, si limitano a voler temperare gli eccessi del capitalismo, per farlo diventare più equo, più stabile e metterlo quindi al riparo da controrivoluzioni socialiste. Entrambi condividono la necessità di proteggere la società capitalista e il libero mercato. In Italia e in Europa quelle libertà non ci sono. Viviamo, piuttosto, in società rigide, ingessate e ingabbiate da regole che l’omicidio di Marco Biagi e le rivolte di piazza a Parigi dimostrano quanto siano difficili da superare. Eppure c’è un’Italia che a queste difficoltà replica proponendo, anzi minacciando, ulteriori regole che necessariamente limiteranno le nostre libertà. E’ un’Italia che non si limita a voler normare tutto il normabile, ma espropria i genitori del diritto di scegliere l’istruzione dei figli, decide dove è più conveniente investire i propri risparmi, impone il servizio civile obbligatorio ai diciottenni, spiega agli imprenditori come si fa il loro mestiere. Tutto ciò, si badi, “per il bene dell’Italia” e, come ha detto lo stesso Romano Prodi, per “organizzare anche un po’ di felicità”. Ecco, ce la lasci organizzare a noi italiani adulti la nostra felicità. Anche perché in agguato c’è sempre il rischio di arrivare a quella Nord Corea chic proposta da un ex candidato a sindaco di Milano, Nando Della Chiesa, che si era presentato con un programma di governo cittadino contro la grande distribuzione alimentare e a favore delle latterie e delle osterie.

La laicità
Questa campagna elettorale ha avuto uno dei suoi punti focali nel tema della laicità dello stato, sicché si fa un gran parlare della necessità di separare lo stato dalla chiesa. Si dimentica però di aggiungere che quel principio costituzionale in America è nato per difendere la libertà religiosa dall’invadenza dello stato, non viceversa. Si dimentica inoltre che in una società libera vige anche la separazione tra lo stato e l’economia, tra lo stato e la vita quotidiana dei suoi cittadini. Noi, invece, viviamo in una società dei divieti che a destra, con Girolamo Sirchia, ci impone di non fumare, mentre a sinistra, con i coniugi Prodi, vuol togliere le merendine dalle mense scolastiche. C’è il paradosso per cui risulta legittimo che un interesse economico organizzato come il sistema coperativo possa fare politica, mentre il proprietario di tre televisioni (e molto altro) rischia di essere fatto fuori per legge. Ma anche che il sindacato possa intervenire nel dibattito politico, mentre per qualche strano motivo la Conferenza episcopale italiana no.
C’è sempre, o almeno quando conviene, un allarme ingerenza, un allarme democrazia, un allarme rincretinimento degli italiani. Come dice Sergio Ricossa, mai una volta che il partito delle regole e dei divieti dimostri stima dell’intelligenza altrui o che faccia fiducia agli elettori, alle loro capacità, alla loro libertà di espressione. Questo, ovviamente, non vuol dire che il conflitto di interessi berlusconiano non esista, ma non si può non tenere conto che, malgrado ciò, metà degli italiani continua a votare liberamente per il Caimano. Tanto più che l’anomalia berlusconiana ha origine da un’anomalia precedente, anch’essa unica al mondo, quella di un sistema televisivo bloccato, di proprietà dello stato, finanziato dai contribuenti, che le televisioni private hanno contribuito a rompere e a modernizzare contro la volontà del partito delle regole e dei divieti. Un partito che, successivamente, ha pure provato a far fuori la tv privata con tre referendum punitivi. La società libera allora disse di no.

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