mercoledì 4 maggio 2005

Questa America non ci piace

Riporto un editoriale di Galli della Loggia sul Corriere, che sottoscrivo parola per parola.
È ormai abbastanza chiaro come molto verosimilmente sono andate le cose: la morte a Bagdad di Nicola Calipari è stata senz’altro frutto di un incidente.

È però anche abbastanza chiaro che in questo incidente, dovuto in sostanza a un caso sfortunato, abbiano avuto un ruolo comportamenti specifici di entrambe le parti: da parte nostra soprattutto la decisione di tenere gli americani all’oscuro della missione in Iraq dei nostri agenti, per via dell’ostilità Usa al pagamento di qualunque riscatto in caso di rapimento; da parte degli Stati Uniti il modo maldestro con cui fu organizzato e gestito il posto di blocco sulla strada dell’aeroporto, nonché la scarsa preparazione del personale militare ad esso preposto.

Resta però il fatto essenziale: Nicola Calipari è stato ucciso da un proiettile sparato dal fucile di un soldato americano, senza che da parte sua vi fosse altra colpa se non quella di trovarsi a bordo di un’auto che forse (un forse che va molto sottolineato) non si è arrestata in tempo al suddetto posto di blocco. Parte da questo dato di fatto la constatazione della grossolana insensibilità con cui gli Stati Uniti hanno fin qui gestito l’inchiesta sull’incidente, non a caso posta interamente sotto l’egida del Pentagono.

Invece di ammettere la propria responsabilità oggettiva nella morte ingiusta del nostro agente a Bagdad, e di trarne le conseguenze offrendo le proprie scuse (che non necessariamente dovevano avere la forma di un invio davanti alla corte marziale di un povero soldato qualunque), gli Usa si sono chiusi nella corazza di una autoassoluzione a 360?e hanno creduto che con ciò ogni questione fosse chiusa.

Si sono sbagliati; ne resta infatti aperta una e di proporzioni enormi: vale a dire il senso che ha per un qualunque Paese intrattenere uno stretto rapporto di amicizia con gli Stati Uniti. A Washington per primi dovrebbero sapere che quasi sempre essere alleati degli americani non è né comodo né facile. Le ragioni sono fin troppo ovvie: più importante è che la disparità delle forze e della vastità degli interessi rischia a ogni istante di fare apparire l’alleanza un vassallaggio di fatto.

Perché ciò non sia—e non appaia — è necessario che Washington abbia, tra l’altro, costante riguardo ai sentimenti dell’opinione pubblica dell’alleato, a cominciare dal suo sentimento della dignità nazionale e degli interessi che esso rappresenta.

Un Paese che vuole essere leader mondiale deve essere capace di avere questa attenzione. Come seppero averla, infatti, nel pieno della Guerra Fredda, presidenti che si chiamavano Truman, Eisenhower, Kennedy e pure Johnson. I quali, per l’appunto, furono capaci di mettere il ruolo planetario della superpotenza americana in sintonia con gli stati d’animo e i valori delle donne e degli uomini liberi in tutta Europa, e non solo.

Il presidente Bush — che pure ripete di continuo che la lotta contro il terrorismo è identica a quella contro il comunismo — non sembra però capace né di volere né di sapere fare altrettanto: neppure con un Paese come l’Italia che finora, in quella lotta, è stato tra i suoi alleati più fedeli e attivi.

Deve allora essere informato — ed è giusto che a farlo siano proprio gli amici di antica data degli Stati Uniti — che tutto ciò non può restare senza conseguenze, e che se a lui sta giustamente a cuore il morale dei soldati Usa inviati in Iraq, per noi italiani è almeno altrettanto importante il morale dei nostri soldati impegnati in Afghanistan e a Nassiriya: ai quali, abbiamo ragione di credere, il modo di condurre l’inchiesta Calipari da parte americana non è affatto piaciuto.
E a noi con loro.

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